“Vivo da 40 anni nello stesso quartiere, a Sarajevo, a due passi da un'antica chiesa ortodossa e da una moschea del XVI secolo. E salendo appena, da casa mia, raggiungo il seminario cattolico. Prima della guerra, quest'armonia, nata dalla differenza, si ritrovava nella vita d'ogni giorno. Sarajevo m'ha aperto gli occhi. Ero stupito nel vedere una città così ricca di grandi qualità umane, soprattutto la tolleranza e la generosità” (Jovan Divjak)
Il 10 gennaio, a Roma, ci saranno anche gli amici di “Bosnia-Erzegovina oltre i confini” a manifestare per chiedere al governo italiano di intervenire contro un rigurgito antistorico, che rischia di riportare alle cronache le idee e gli obiettivi criminali che hanno martoriato l'ex Jugoslavia negli anni ‘90.
A vent'anni dalla fine del genocidio, torna lo spettro del nazionalismo che non si limita alle parole ma prepara i fatti. Di fianco a noi, non in un'altra galassia. Nella vita reale, non su Netflix.
Milorad Dodik, serbo ultra-nazionalista, membro della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina, avrebbe in programma di ricostituire un proprio esercito serbo-bosniaco, e di togliere competenze a Sarajevo, in favore di Banja Luka, nei fatti capitale della Repubblica serba.
Incredibili i motivi alla base di questo rinnovato allarme, da cercare nella modifica del codice penale bosniaco voluta dall'alto rappresentante della comunità internazionale in Bosnia (l’autorità istituita per garantire l’attuazione degli accordi di pace firmati a Dayton nel 1995).
Valentin Izko, ha infatti vietato, pena la detenzione, sia l’apologia di criminali di guerra (Mladic e Karadzic, su tutti), sia la negazione del genocidio di Srebenica, mandando su tutte le furie Dodik, che ha parlato di provocazione.
Per Giulia Berardelli, di Huffington Post,
“il futuro di Sarajevo, storico crocevia dei destini europei, appare sempre più lontano dall’Unione europea. La Bosnia-Erzegovina è un Paese che non ha ancora lo status di candidato perché prima dovrebbe attuare una montagna di riforme impossibili da realizzare in uno Stato paralizzato da una metastasi burocratica e istituzionale che affonda le sue radici negli accordi di Dayton del 1995. Da anni Sarajevo è sola, intrappolata in un labirinto da cui sempre più persone scelgono di fuggire, soprattutto giovani”.
Jovan Divjak non c'è più, ma la sua battaglia per preservare l'armonia nata dalla differenza e gli ideali di tolleranza e generosità che hanno in Sarajevo il loro simbolo merita di essere portata avanti.